LE MENZOGNE DEL RISORGIMENTO

LE MENZOGNE DEL RISORGIMENTO

di Antonio Pagano

La propaganda savoiarda è stata così pregnante che, dopo l’annessione violenta della Napolitania e della Sicilia, il nuovo Stato «italiano», non potendo delegittimare se stesso rivelando la verità degli avvenimenti, ha dovuto trasformare il «risorgimento» in una religione di Stato, consacrando “eroi” quei criminali di guerra come Cialdini, Garibaldi e numerosi altri, ai quali sono stati dedicati monumenti, strade, piazze e caserme. Un esempio classico di come la storia è sempre scritta dal vincitore. Il vincitore in questo caso, divenuto Stato “italiano”, continua a diffondere da oltre un secolo le menzogne risorgimentali, rimanendo di fatto “piemontese” e mai “italiano”. Soprattutto mai considerando la Napolitania facente parte dello Stato.

Numerosi scrittori hanno rappresentato le pessime condizioni economiche e sociali del territorio delle Due Sicilie all’atto dell’annessione, ma tale situazione si era verificata dopo l’invasione piemontese ed essi, invece, ne attribuirono le colpe all’amministrazione borbonica. Menzogne che sono state e continuano tutt’oggi ad essere insegnate come storia ufficiale. Tuttavia bastano poche considerazioni per smentire questo luogo comune.

Avvenuta la conquista di tutta la penisola, infatti, i piemontesi, immediatamente, misero le mani su tutte le riserve di denaro esistenti nelle banche degli Stati appena conquistati. A seguito dell’occupazione fu impedito al Banco delle Due Sicilie, smembrato in Banco di Napoli e Banco di Sicilia, di rastrellare dal mercato le proprie monete d’oro per trasformarle in carta moneta, mentre ciò veniva consentito solo alle banche piemontesi. Il divieto fu posto per il semplicissimo motivo che le banche del Sud, ritirando le monete d’oro in circolazione, avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni diventando così le padrone di tutto il mercato finanziario italiano.
Quell’oro, invece, con nascoste manovre, passò nelle casse della Banca Nazionale degli Stati Sardi (azienda di credito privata, che divenne, dopo qualche tempo, la Banca d’Italia) e fu utilizzato per la costituzione di imprese al nord tramite il finanziamento operato da banche, per l’occasione subito costituite, socie della Banca Nazionale Sarda: Credito mobiliare di Torino, Banco sconto e sete di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino.

Queste rapine, e l’emissione non controllata di carta moneta, spinsero il neonato governo a decretare, nel 1863, il corso forzoso, in altre parole la lira cartacea non poté più essere cambiata in oro. Oltre ai danni obiettivi che si arrecavano al risparmio di tutte le popolazioni della penisola, da tal momento ebbe inizio il cosiddetto «Debito Pubblico italiano»: lo Stato, in pratica, per finanziarsi iniziò a chiedere carta moneta ad una banca privata, la Banca Nazionale Sarda. Lo Stato, quindi, grazie al «genio» (criminale) del Cavour e soci, cedette da allora la propria sovranità in campo monetario affidandola a privati, che non ne hanno alcun titolo, essendo la sovranità, per sua natura, non cedibile perché è del popolo e dello Stato che lo rappresenta.

Inoltre, per consentire lo sviluppo delle nascenti industrie del Nord, le cosche risorgimentali eliminarono dal mercato le industrie napolitane e, agendo in regime di monopolio, imposero i propri prodotti al vasto mercato conquistato. Furono decretate nuove misure doganali e concesso solo alle aziende del Nord ogni tipo di appalto. L’economia dell’Italia meridionale ebbe in tal modo un crollo verticale non solo perché il baricentro economico venne a gravitare al Nord, ma anche perché il regime savoiardo impose una politica di libero scambio con Francia e Inghilterra che mise in ginocchio le industrie napolitane, fino al 1860 protette da dazi differenziati.
Furono, inoltre, decretate numerose nuove tasse che drenarono le residue risorse dei napolitani, impiegate esclusivamente nell’area lombardo-piemontese. L’onere fiscale imposto agli abitanti delle Due Sicilie aumentò, tra il 1861 ed il 1891, di circa il 144% e, mentre per le spese pubbliche (istruzione, giustizia, lavori pubblici e sicurezza) lo Stato “italiano” spendeva il 20% delle entrate per il territorio nazionale, ne riservava meno del 5% al Sud. In pratica, per avere un’idea approssimativa, lo Stato spendeva per ogni cittadino del Nord oltre il 330% (50 lire) di quanto spendesse per ogni cittadino napolitano (15 lire).

Furono introdotte, poi, le imposte di consumo che sostituirono i dazi comunali del periodo borbonico. Tali imposte gravavano nel Sud in modo singolare: risultò nel 1874 che i contadini siciliani pagavano il 250% di quanto pagava un contadino toscano. La situazione peggiorò quando la tassa sul macinato fu abolita nel 1902 sostituendola con il dazio di consumo “solo e soltanto” sulla frutta, vale a dire solo per la Napolitania e la Sicilia da cui allora veniva praticamente tutta la frutta commerciabile in Italia.
Il governo imposto in tutta la penisola conquistata era eletto da un parlamento composto di una minoranza borghese, di pochi “intimi”, che escludeva la quasi totalità degli abitanti. Solo il 9% aveva diritto al voto (circa 500.000 persone, diventati 2 milioni con la riforma del 1882) e di questa percentuale facevano parte solo le classi agiate che imposero tasse, pubblica sicurezza, codice civile e penale, scuole e amministrazione esclusivamente a favore dei propri interessi. Tale situazione durò fino al 1912 quando fu introdotto il suffragio universale maschile. Gli Atti Parlamentari testimoniano, inoltre, come fosse una pratica ufficiale e diffusissima quella della corruzione elettorale di tutte le legislature, particolarmente dal Minghetti al Giolitti.

Dopo l’unità d’Italia le mire affaristiche e la politica della borghesia dominante sconvolsero tutti i valori sociali preesistenti, provocando forti tensioni sociali particolarmente nelle Due Sicilie. Qui le terre demaniali divennero proprietà privata, originando i latifondi dai quali i contadini conduttori furono allontanati. Si crearono, così, nuove povertà, mentre calava la produzione agricola. Circa 600 milioni di lire incamerati con la vendita delle terre demaniali, quasi tutta la riserva liquida degli abitanti napolitani, fu trasferita nelle casse del neonato Stato “italiano”. Per di più l’aggravamento dell’imposta fondiaria, triplicata nelle Due Sicilie rispetto alla cifra originaria, comportò in capo a pochissimi anni che la maggior parte dei piccoli proprietari terrieri, impossibilitati a pagare le tasse, non ebbe altra alternativa che vendere la terra. Infatti, negli anni 1885 / 87, questa fu la situazione dei pignoramenti fiscali, riguardanti appunto i crediti del fisco: mentre in Lombardia c’era 1 pignoramento fiscale ogni 27.416 abitanti e nel Veneto 1 ogni 14.757, nel Mezzogiorno se ne aveva da un minimo di 1 ogni 900 abitanti (in Puglia) ad un massimo di 1 ogni 114 abitanti (Calabria). Così, i “galantuomini”, acquistando le terre pignorate a poco prezzo, diedero origine al latifondismo nel Meridione, un latifondismo però non capitalistico.
In tal modo, però, la cieca borghesia dell’ex Regno, ridotto nel 1861 a essere una provincia del nuovo Stato unitario, si precluse definitivamente la via dello sviluppo economico, convinta che solo con il reddito agrario potesse finalmente affermare il suo predominio. Concezione del tutto suicida, già con lungimiranza contrastata dall’accorta amministrazione borbonica. Questa aveva intuito che non solo non vi poteva essere progresso con la sola agricoltura, ma che tale progresso andava costruito accortamente e senza sconvolgimenti sociali. Tra l’altro le proprietà terriere della Napolitania furono tassate dal 15% (Calabria) al 20% della Sicilia, mentre nel Nord l’aliquota era del solo 8,8%. Con tale massiccia fiscalizzazione i nuovi latifondisti napolitani non ebbero margini significativi per investimenti e così si limitarono a fare colture di rapina delle risorse della terra con conseguenti effetti strutturali devastanti.

L’occupazione militare piemontese provocò, conseguentemente, una violenta e diffusa guerriglia di resistenza contro quello che era considerato un esercito straniero, e contro i “galantuomini” collaborazionisti. Gli occupanti, per poter conservare i nuovi territori, attuarono una feroce repressione contro la popolazione civile. Le atrocità commesse dai piemontesi e dai collaborazionisti, in particolare durante il periodo del cosiddetto “brigantaggio”, possono sembrare mostruose e incredibili, ma nella gran parte, nonostante siano ancora coperte da segreto di Stato, sono documentate negli Atti Parlamentari, in quello che resta delle relazioni della Commissione d’inchiesta sul brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell’epoca e nella vasta documentazione custodita negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove i fatti si svolsero.
I savoiardi infierirono anche nei confronti dei prigionieri di guerra napolitani stipati come bestie in campi di concentramento appositamente allestiti in Piemonte, Liguria e Lombardia. Nel lager di Finestrelle i prigionieri napolitani venivano eliminati nella calce viva. Il trattamento riservato ai prigionieri fu oltremodo disumano se si considera che esso fu messo in atto contro gente colpevole solo di aver difeso la propria Patria e di aver tenuto fede ad un giuramento. Tutto questo in spregio totale alle condizioni delle capitolazioni firmate dagli ufficiali piemontesi.

Mai, in una storia lunga oltre 2500 anni, le terre napolitane avevano subito una così atroce invasione. Questa comportò anche a una massiccia emigrazione che raggiunse ben presto il carattere di una vera e propria diaspora, una diaspora che, purtroppo, continua ancora oggi. Prima dell’invasione piemontese, quello dell’emigrazione era un fenomeno del tutto sconosciuto per i Napolitani: anzi non pochi settentrionali cercavano lavoro nelle Due Sicilie.
Le masse contadine, degli operai e degli artigiani, piegate dalla forza, ma non nel morale, non trovarono altro sbocco per sopravvivere che trasferirsi in terre lontane, in questo “favorite” interessatamente dagli invasori. Calabresi, Abruzzesi, Molisani, Campani, Lucani, Pugliesi e Siciliani partirono così verso mondi del tutto ignoti. In quelle terre lontane, molto spesso ostili, tuttavia, sono riusciti a far emergere le loro antiche virtù mediterranee, costruendo a volte ricchezze straordinarie, mai dimenticando la loro Patria. Ancora oggi, pur col passare delle generazioni, i loro figli diventati americani, canadesi, argentini, venezuelani, cileni o australiani, conservano intimamente le loro origini.

Anche in questa loro diaspora, circa 23 milioni d’emigranti a tutt’oggi, i Napolitani sono stati sfruttati dai piemontesi, che utilizzarono le loro rimesse per salvare le esauste finanze dello Stato “italiano” o per finanziare le nascenti industrie delle aree lombarde, piemontesi e liguri, che, vendendo i loro prodotti sul mercato del Mezzogiorno, hanno ricavato ulteriori guadagni, questo mentre l’economia dell’ex Reame andava sempre più impoverendosi.
Ben più deleteria fu poi l’emigrazione che ebbe inizio dalla seconda metà del 1950. Questa, depauperando la Napolitania di quanto ancora restava dell’antica società, ha trasformato e a volte dissolto, attraverso scuola, partiti politici e mezzi d’informazione, la stessa identità della gente napolitana.

 

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