Denuncia presentata all’ONU

Denuncia presentata all’ONU nel dicembre 2012

All’attenzione degli organi internazionali.

All’Organizzazione delle Nazioni Unite e loro Uffici competenti.

Al Consiglio d’Europa e loro Uffici competenti.

Questa è una denuncia allo stato italiano da parte del Fronte di Liberazione della Napolitania (FLN) che ritiene ormai impossibile continuare a far parte di uno stato che colonizza la nazione napolitana che vuole avere la possibilità ad autogovernarsi, così come è permesso a tante altre nazionalità nel mondo. Per questo motivo viene presentato quest’altro dossier sulla mano colonizzatrice che l’Italia stende sulla Napolitania.

In NAPOLITANIA, di Italia si muore!

 

1) RIFIUTI TOSSICI

Alla luce del recente arresto di uno dei capi storici del cosiddetto “clan dei casalesi”, Francesco Bidognetti, il Fronte di Liberazione della Napolitania DENUNCIA, ancora una volta, il GENOCIDIO DEL POPOLO NAPOLITANO.
Ancora una volta, il popolo napolitano subisce le angherie di uno Stato criminale che ha nelle Mafie il suo BRACCIO ARMATO. Bidognetti, già detenuto a Parma in regime di 41 bis, ha avvelenato le falde acquifere di vaste aree della provincia di Napoli e Caserta, smaltendo illegalmente oltre 800 mila tonnellate di rifiuti tossici provenienti dal nord come l’Acna di Cengio (Acna, acronimo di Aziende Chimiche Nazionali Associate, di Cengio, in provincia di Savona, chiusa nel 1999, produceva quasi esclusivamente coloranti e pigmenti organici per uso industriale come tessile, cuoio e materie plastiche particolarmente inquinanti).

In queste zone si respira un’aria mortifera, di terrore. Intere distese di quella che era tra le zone più fertili del pianeta (la “Campania felice”, come la ribattezzarono i romani) parlano di morte e disastri al solo guardarle. Lo Stato italiano, pur se a conoscenza di queste connivenze criminali da circa 40 anni, continua nella sua folle distruzione, non punendo i veri responsabili, non adoperandosi in nessun modo né per bloccare questo scempio (tuttora in corso)né per bonificare queste zone.
Secondo le perizie, fra 50 anni queste aree saranno completamente desertificate. Non più un solo filo d’erba crescerà nella Campania felice. Come scrive la brava giornalista anticamorra, Rosaria Capacchione:
“D’inverno, quando non c’è più il foraggio a delimitare l’area delle ecomafie, bisogna ricorrere al satellite o ai fotogrammi scattati dall’alto dagli elicotteri di ricognizione e dai droni. E si scopre che il veleno si è infiltrato a chiazze, seguendo il percorso sotterraneo della falda acquifera, desertificando appezzamenti che furono fertilissimi; bruciandone altri, corrosi dagli acidi e dal cromo dei fanghi dei depuratori. Masseria del Pozzo era una delle contrade più produttive dell’area di confine tra Parete e Giugliano. Come Schiavi, d’altronde. E Grotta dell’Olmo e Pozzo Bianco.

Oggi sono invasi neri, maleodoranti, dai quali fuoriescono rigagnoli di fanghiglia: percolato mischiato all’acqua della falda. Guardando verso l’interno degli immensi territori che furono la parte paludosa di Campania Felix – tra la Domiziana e il Massico, tra le province di Napoli e di Caserta – s’incrocia il non dissimile panorama di Ferrandelle, Parco Saurino, Maruzzella: campagne aride e grigie all’interno delle quali sopravvivono solo i fili d’erba cresciuti sui teloni neri che ricoprono i rifiuti.

Si ricollegano, idealmente, con gli altri teloni neri: quelli di Taverna del Re e Masseria del Re, che inglobano cava Giuliani, il più grande distretto d’immondizia della Campania. Più grande ancora di Malagrotta, la discarica romana che si appresta alla chiusura senza sostituzione. Tra Giugliano e Caserta, ancora macchie nere con l’impronta delle fiamme: è la terra dei fuochi, quella che congiunge – passando per la discarica casertana di Lo Uttaro – la periferia industriale napoletana, fino a Caivano, all’area dell’interporto di Marcianise e Maddaloni, una sorta di vulcano sempre attivo dalle cui bocche fuoriescono diossina e ceneri di pneumatici. L’area del disastro ha un cratere di un centinaio di chilometri quadrati. Abbraccia il grande canalone dei Regi Lagni e i terreni di Scafarea, Tre Ponti e Taverna del Re, s’inerpica sino alle falde del Vesuvio, fino a Terzigno. E poi prosegue verso la zona flegrea, verso la montagna dei Camaldoli, verso Chiaiano. Zone una volta salubri, di eccellenze agroalimentari, di frutteti e vigneti che hanno ottenuto importanti riconoscimenti, sono ormai rase al suolo, come nel peggiore degli incubi post-atomici.

È un triangolo costruito sui veleni, territorio contaminato dai rifiuti, urbani e industriali, raccolti nelle discariche abusive in oltre vent’anni di uso dissennato e criminale del territorio. Il perimetro è tracciato dalle inchieste giudiziarie degli ultimi anni, le stesse nelle quali il disastro è contestato come reato. Disastro documentato dalla scienza attraverso la perizia del geologo Giovanni Balestri che ha ricostruito la mappa del sottosuolo dell’area a nord di Napoli, compresa tra Giugliano, Parete, Villaricca, Qualiano, Villa Literno. La perizia è depositata nel processo a carico di Cipriano Chianese, titolare della discarica Resit, padre fondatore del sistema delle ecomafie. Vi è annotata la data della fine del mondo: entro il 2064, ha scritto il tecnico, il percolato prodotto da 341 mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi (a cominciare dagli ottomila quintali di fanghi dell’Acna di Cengio), di 160 mila e 500 tonnellate di rifiuti speciali non pericolosi, di 305 mila tonnellate di rifiuti solidi urbani, precipiterà nella falda e avvelenerà decine di chilometri quadrati di terreno e tutto ciò che lo abiterà.”

E come ci si ricorda, durante l’ennesima emergenza rifiuti a Napoli del 2008,quando lo Stato italiano – non avendo di meglio da fare – inviò l’esercito per far fronte al disastro creato dai suoi stessi “uomini”, Ferrandelle, le piazzole di parco Saurino e di Villa Literno divennero un’immane distesa di rifiuti urbani non stabilizzati, accatastati insieme a rifiuti tossici speciali, liberamente sversati su terreni agricoli. Un disastro, come tanti che si consumano in Napolitania da 153 anni, totalmente a carico dello Stato italiano, dei suoi faccendieri e della classe dirigente italiana, quasi esclusivamente tosco-padana, di cui la camorra è solo manovalanza. Fu proprio un pentito di camorra che svelò l’atroce verità: la camorra non sapeva neanche di potersi arricchire con l’immondizia. Furono gli imprenditori padani a contattare uomini di spicco dei clan. Lo Stato italiano, per tutta risposta, ampliò discariche illegali, legalizzandole, e continua nel suo progetto criminale fatto di discariche, inceneritori e terre mai bonificate, in cui i tassi di mortalità registrati sono vertiginosi. Secondo i tanti medici impegnati quotidianamente in questa battaglia, grazie all’avvelenamento delle falde acquifere, dei concimi e dell’intero habitat, il livello di malattie mortali – dal cancro alle malattie del sangue – ha raggiunto livelli senza precedenti, riguardando sempre più bambini e persino neonati e feti.

 

2) INQUINAMENTO DA SFRUTTAMENTO PETROLIFERO

Lo stato italiano continua a distruggere i luoghi più belli della Napolitania, causando non soltanto enormi danni economici ai cittadini di queste zone che vedono la loro economia massacrata, ma anche e soprattutto danni ambientali e sanitari.
In Lucania, ad esempio, grazie ad un patto scellerato tra Regione ed ENI, si continua a trivellare sotto gli occhi impotenti dei cittadini. Di seguito, un estratto-pubblicato dal WWF Italia sezione regionale di Basilicata – di questo accordo:
L’intesa tra Regione Basilicata ed Eni per la gestione del programma di sviluppo petrolifero dell’area della Val d’Agri è, com’è noto, del novembre 1998.
A più di 10 anni di distanza dalla sottoscrizione dell’accordo oggi registriamo che la maggior parte degli accordi è rimasta inattuata, come è stato anche rilevato dall’apposita Commissione Speciale d’Inchiesta del Consiglio Regionale della Basilicata (relazione conclusiva del febbraio 2005).

In realtà dei 12 punti previsti nell’accordo solo tre sono stati pienamente attuati: l’accordo 1 che riguarda le compensazioni ambientali, per mezzo del quale sono stati progettati e realizzati interventi di forestazione produttiva nei territori delle comunità montane interessati dalle perforazioni (con semi acquistati all’estero nonostante la disponibilità di semi locali!); l’Accordo 6 che riguarda l’anticipazione delle Royalties, l’Accordo 9, che ha visto l’istituzione della Fondazione Mattei in Val d’Agri. Per quanto riguarda l’istituzione della Società Energetica Lucana (punto 8 dell’accordo) essa risale formalmente al 2006 (l.r. n.13/2006), ma solo di recente (giugno 2008) sono stati nominati gli organi direttivi.

Rimangono quindi inattuali parzialmente o sostanzialmente i punti dell’accordo riguardo i progetti di sviluppo sostenibile, il monitoraggio ambientale , la gestione del sistema di monitoraggio ambientale, la costituzione di un osservatorio ambientale, la costituzione di un’agenzia regionale per lo sviluppo, la gestione della sicurezza attraverso specifici piani.

Particolare preoccupazione desta la non attuazione dei piani di sicurezza, anche in relazione all’elevato numero di incidenti sino ad ora verificatisi alle autobotti durante il trasporto del greggio, ai pozzi di estrazione ed al centro olio di Viggiano, l’ultimo dei quali si è verificato in data 2.2.09 e la mancanza di un adeguato sistema di monitoraggio, oramai indifferibile visto anche l’allarme sanitario che si sta diffondendo nell’area per il presunto aumento di patologie degenerative.

Ad oggi, infatti, resta ancora inadeguato rispetto ai potenziali rischi il monitoraggio ambientale previsto dall’accordo che è effettuato da società gestite direttamente dall’ENI, saltuariamente dall’ARPAB e da centraline di biomonitoraggio della Società Agrobios.

Solo nel mese di maggio 2008 (a 10 anni dalla sottoscrizione dell’accordo con ENI) la Regione Basilicata ha finalmente indetto il bando per la realizzazione del sistema di monitoraggio in Val d’Agri così come previsto dall’accordo ma ad oggi l’appalto non è stato ancora assegnato.

In merito al monitoraggio va evidenziato che risulta ad oggi disatteso non solo quanto previsto dell’accordo tra Regione ed ENI, ma anche quanto previsto dal parere di V.I.A. rilasciato dal Ministero dell’Ambiente in data 5.2.1999 sul centro Olio di Viggiano, ed in particolare il monitoraggio di tutti i parametri degli inquinanti, come ad esempio l’H2S (Idrogeno Solforato), il benzene, gli IPA -idrocarburi policiclici aromatici-, i COV-composti organici volatili- (sul sito ufficiale della Regione Basilicata non vengono riportati i valori di queste emissioni) così come anche denunciato dall’organizzazione Lucana Ambientalista in data 2.1.09.

In egual modo per quanto riguarda il monitoraggio delle emissioni inquinanti presso i pozzi petroliferi e lungo gli oleodotti, di cui al Decreto VIA dei Ministeri dell’Ambiente e per i Beni e le Attività Culturali n.3804 del 16 giugno 1999, risultano totalmente e/o parzialmente disattesi i punti 6, 7, 8, 8a, 8b e 8c del suddetto Decreto che prevedeva che “in considerazione dell’eccezionale valore naturalistico dell’area montana tra il Monte Pierfaone ed il Monte Volturino, che comprende boschi d’alto fusto di faggio e di cerro, praterie e pascoli serici montani ed alpini, rilevanti presenze faunistiche, su cui insistono tra l’altro i siti di importanza comunitaria Calvello e Volturino, l’inizio delle attività nelle suddette aree sarà subordinato agli esiti del monitoraggio, finalizzato alla verifica degli effetti prodotti dalle attività di programma sul resto del giacimento”.

Tale monitoraggio doveva comprendere:

  • le opere di rinaturazione ed ingegneria naturalistica;
  • lo stato degli ecosistemi ante e post operam (basato almeno sui seguenti indicatori: microclima, suolo, ambiente idrico, morfologie naturaliformi, vegetazione con studio fitosociologico, flora lichenica, macrofauna, microteriofauna, carabidiofauna);
  • gli interventi di prevenzione dei rischi da inquinamento (atmosfera, acque superficiali e sotterranee, suoli);
  • il rischio di diffusione degli aereosol e relativo modello previsionale.

Monitoraggio sismico.

Il Programma di monitoraggio dovrà assicurare la raccolta dati (compatibile con la rete sismica nazionale e/o delle reti locali) da un numero di stazioni idoneo ad effettuare il monitoraggio della sismicità naturale e/o indotta dell’area del giacimento.
Monitoraggio suolo e sottosuolo Per monitorare gli eventuali effetti sulla dinamica del contesto geologico dovranno essere realizzati dei capisaldi di livellazione di precisione, opportunamente ubicati nell’ambito delle postazioni in numero sufficiente a fornire un quadro rappresentativo dell’area del giacimento.” Anche in merito all’ottemperanza di questa specifica attività, il WWF ha chiesto al Ministero di porre in essere le opportune attività di verifica.

 

3) INDUSTRIALIZZAZIONE SCELLERATA con situazione mortifera tra la popolazione.

Oggi Taranto vive tra bugie, menzogne e falsità meschine, che ancora una volta hanno infangato il rispetto di una città ormai allo stremo, risultato dovuto a uno stato incapace di gestire una industria seria e secondo le norme internazionali che salvaguardano l’incolumità dei lavoratori e delle loro famiglie.
È visibile una distruzione ambientale, ma anche e soprattutto umana, sociale e civile, nella città di Taranto che ha subito in nome del Progresso Nazionale e della Produttività Industriale Italiana dal 1960 ad oggi. Sì, perché oltre al danno puramente sanitario ed ambientale, oltre alle stime tremendamente paurose su mortalità, decessi e contrazione di tumori, Taranto e i Tarantini devono giorno dopo giorno confrontarsi per giunta con lo scandalo perpetrato, in tutti gli ambiti, dal Sistema Italia; sistema in cui la classe politica tutta osa screditare ed infangare i provvedimenti giudiziari della Magistratura; sistema in cui un Ministro dell’Ambiente si permette di etichettare come fallaci ed inaffidabili le cifre sui decessi da cancro inseriti nello studio del GIP; sistema in cui magnati dell’industria e politicanti banchettano tranquillamente sui copri smunti dei cittadini col pretesto della competitività economica internazionale.
Sistema, questo, che così come concepito, cresciuto e nutrito, non lascia scampo alla popolazione di Taranto, che paradossalmente si vede costretta a scegliere un compromesso improponibile: Salute o Lavoro? Vita o Morte? Scelta, questa, che comunque la si voglia vedere lascia ben poco spazio al concetto di Libertà, di decisione autonoma ed indipendente. E questo in quanto, in definitiva, anche la più incongetturabile idiozia di preferire la busta paga alla salute, non sarebbe una scelta, sarebbe una costrizione. Giacché si può morire solo se obbligati dalla necessità, e mai spinti dalla volontà chiara e decisa di farlo.

The chimneys of the Ilva factory can be seen for miles around. Così recita il France24, nell’articolo firmato Tristan Dessert, sulla drammatica situazione ambientale tarantina, in cui il giornale internazionale espone chiaramente (diversamente da quanto avviene in Italia) dati e stime ufficiali sulla mortalità infantile (e non) dovuta allo sversamento nell’aria di sostanze tossiche da parte dell’ILVA, la più grande fabbrica siderurgica europea, uno dei colossi mondiali per la produzione di acciaio e simili.
Secondo lo studio S.E.N.T.I.E.R.I., commissionato dall’istituto Superiore della Sanità e rilasciato recentemente dal ministro Balduzzi, “lo stabilimento siderurgico, in particolare gli impianti altoforno, cokeria e agglomerazione, è il maggior emettitore nell’area per oltre il 99% del totale, ed è quindi il potenziale e fattuale responsabile degli effetti sanitari correlati al benzo(a)pirene”.
In realtà non è solo il benzo(a)pirene (sostanza cancerogeno/mutogena, capace di indurre modificazioni genetiche al DNA degli individui esposti) ad inquinare il cielo e la terra di Taranto.
V’è la Diossina, potente sostanza cancerogena i cui terribili e disastrosi effetti sono risaputi e riconosciuti dalla convenzione di Stoccolma del 2001; vi sono i PCB (poli-cloro-bifenili), miscele liposolubili anch’esse cancerogene per l’uomo; e v’è il Berillio, che contamina il suolo fino a raggiungere le falde acquifere sottostanti.

Se questi sono i veleni che respirano, giorno dopo giorno, lavoratori e non, basta dare uno sguardo alle stime per capire l’enormità del disastro perpetrato sul suolo tarantino.
Solo l’Ilva risulta responsabile del 92% delle emissioni di diossina nazionale, il che vuol dire che quasi tutta la diossina prodotta dall’Italia viene assunta, regolarmente, dai polmoni dei cittadini di Taranto e preciso: non soltanto dai lavoratori dello stabilimento. Sempre ragionando su tali percentuali, l’Ilva produce dunque il 9% della diossina in tutta Europa.
Con una recente ordinanza, il Consiglio Comunale di Taranto ha vietato le coltivazioni di mitili nel I seno del Mar Piccolo, in quanto i valori di diossina erano allarmanti: su un limite di 8 picogrammi per grammo, le analisi hanno rivelato una presenza di ben 13,5 picogrammi di inquinante, uno sforamento di circa il 69%. Le celeberrime cozze pelose, le cozze San Giacomo e le ostriche del Mar Piccolo, non possono più essere assunte.

Stessa cosa vale per formaggio, latte e carne derivanti da bestiame allevato in un raggio di 20 km dal polo industriale. Secondo uno studio di Peacelink, per quanto riguarda l’assunzione di Pecorino, per un uomo di 70 chili si supera la dose massima di inquinante tollerabile di 7 volte; per una donna di 50 chili lo sforamento raggiunge i 10.

A Taranto e Statte, rispetto agli altri comuni della provincia, v’è un incremento medio di tumori del 30%. Nello specifico, l’incidenza tumorale raggiunge il 100% per cancro al rene, alle vie urinarie e alla pelle. Mentre nelle donne, lo stesso livello è toccato per il cancro allo stomaco, all’utero e al fegato. Ma le stime impressionanti riguardano l’eccesso di mortalità rispetto al resto della regione nel periodo 2003/09. Negli uomini si registra infatti un incremento del 419% per il mesotelioma pleurico, mentre nelle donne il 211%.

Dei dati, questi, terribili e allo stesso tempo disarmanti, tenuto conto che si tratta di una città occidentale del XXI secolo, in cui anni di lotte hanno portato (o almeno avrebbero dovuto portare) alla costituzione di uno Stato Sociale garante della salute dei cittadini.
E’ solo avendo sottocchio tali stime che, forse, si può parlare con coscienza e consapevolezza del caso Taranto; ma è solo avendovi vissuto che, di sicuro, si possono capire le dinamiche, le logiche, gli schemi che sono dietro questo massacro umano, questo genocidio alla luce del sole. Perché a Taranto non si calpesta soltanto il diritto alla vita, ma anche il diritto di esercitare un libero pensiero. Come mai potrebbe un operaio schierarsi apertamente contro l’Industria dispensatrice di morte, che allo stesso tempo gli garantisce una stentata sussistenza economica? Con quale coraggio, un semplice lavoratore, non un eroe, ma un semplice lavoratore, potrebbe fare ciò?

Taranto è vittima di un mastodontico ricatto occupazionale, che varca i confini del licenziamento per approdare ad una questione ben più seria ed intricata: la mancanza di alternative. Dice bene il France24 quando afferma: “for a long time, Ilva has been the pride of the region, but now there’s a less glorious reality, which has long been hidden”. Per molto tempo infatti l’Ilva è stata l’orgoglio della città di Taranto, nonché la punta di diamante dell’Industria italiana; ma adesso, essa da orgoglio si sta tremendamente trasformando in necessaria alternativa, unico punto di riferimento per l’occupazione tarantina, in cui il bacino di giovani in cerca di lavoro deve barcamenarsi fra Ilva (acciaieria), Cementir (cementificio) o Eni (raffineria). Non c’è altra soluzione, altra possibilità.
E quando la gamma di alternative si restringe ad un’unica realtà lavorativa, quella industriale, non si può più parlare di libertà. Come detto in principio, Taranto e i Tarantini sono costretti a morire pur di lavorare, non scelgono deliberatamente di farlo.

L’Ilva è diventata agli occhi di tutti una Necessità. Ineluttabile, improrogabile, inevitabile.

Taranto non fu un errore, come adesso la stampa italiana cerca di sostenere. Taranto è stata una scelta, accuratamente preparata, rientrante in un più vasto disegno di assoggettamento economico del Sud Italia, cominciato, fattualmente, nel 1950 con la Cassa del Mezzogiorno, e continuato fino ai nostri giorni con imperitura durezza. Assoggettamento che adesso mostra i suoi risvolti più macabri ed oscuri, con un’intera popolazione destinata a perire per gli interessi nazionali di uno Stato nato e cresciuto come oppressore. Assoggettamento che adesso pone Taranto e, per estensione, la Napolitania tutta di fronte ad una realtà terribile e disarmante.

Molti sostengono una riconversione della città di Taranto orientata verso il turismo, la cultura, la storia, l’utilizzo dello splendido patrimonio naturale, del mare, del sole, dell’enogastronomia. Ottimo il fine, il migliore che si possa auspicare per una città straordinaria quale Taranto.
Ma i mezzi? Le risorse umane, dove sono? Dove una classe dirigente adatta, dove un substrato giovanile armato di idee, di progetti, di voglia di fare? Mancano i mezzi, e tale mancanza è da imputare, storicamente, ma soprattutto economicamente, al processo di aggiogamento commerciale, finanziario e sociale dell’intera Napolitania da parte di quello Stato oppressore e tiranno che, adesso, si fregia dell’indebito nome di Italia.

Come fa una città a risollevarsi, se, finito il liceo, è destino comune di tutti i suoi giovani meritevoli andare a vivere nelle regioni centro-settentrionali, per frequentare l’università o trovare lavoro? Come fa una città a ricostruire il proprio destino, se le manca la possibilità di guardare al futuro? Come mai potrebbe sperare in un qualcosa di diverso, senza la componente pensante della sua società civile?
Dunque, concludendo, per Taranto come per tutto la Napolitania, se l’unica possibilità di riscatto consiste, come si è detto, nel riacquisire le risorse umane ed economiche, necessarie per poter decidere autonomamente del proprio futuro; se l’ unica possibilità di rivincita consiste nel riassumere in sé i mezzi materiali per poter scegliere quale strada intraprendere; bene allora si dimostra quanto inevitabile ed improrogabile sia rimuovere l’altrettanto unico ostacolo che vi si frappone alla sua realizzazione.

 

Visto quanto fin qui dimostrato, il FLN – Fronte di Liberazione della Napolitania è sempre più convinto nel percorrere la strada dell’indipendenza dei nostri territori dallo stato italiano e quindi si appella alla Convenzione Internazionale, stipulata nell’ambito dell’ONU il 16.12.1966 che è stata ratificata dall’Italia con la legge n. 881 del 25.10.1977 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, supplemento ordinario del 7 dicembre 1977, n. 333) e che prevale sul diritto interno italiano, come viene confermato dalla Corte di Cassazione con decisione del 21.3.1975.
All’art.1 stabilisce testualmente che “tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale” e che “gli Stati parti del presente Patto debbono promuovere l’attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto, in conformità alle disposizioni dello Statuto delle Nazioni Unite”.

 

Il FLN chiede che il popolo napolitano abbia diritto di esistere e autogovernarsi.

 

Il Consiglio Direttivo FLN
Fronte di Liberazione della Napolitania

fln@napolitania.com

Il Portavoce FLN
Antonio Iannaccone

antonio.iannaccone@napolitania.com

Il Cancelliere FLN
Alessandro Paone

segreteria.fln@napolitania.com

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