PERCHÉ L’INDIPENDENZA

PERCHÉ L’INDIPENDENZA

RIONERO IN VULTURE – 3 / 4 NOVEMBRE 2012

di Antonio Pagano

L’anno scorso, il nostro Stato “unitario” ha festeggiato con la peggiore retorica di regime il suo 150° anniversario, ma per noi della Napolitania questo giorno è stato un giorno funesto.

Per un lungo decennio (tra il 1861 ed il 1871) noi abbiamo resistito con ogni mezzo possibile contro l’occupazione piemontese con una guerra di resistenza che i libri di storia e la retorica del regime ancora oggi mistificano descrivendolo brevemente come “lotta al brigantaggio”.

Basta solo questo a provare che gli interessi dei colonizzatori non sono cambiati perché, come tutti sapete, la cosiddetta “unità d’Italia” non esiste, essa è solo un trucco per coprire quella che fu un’occupazione militare mirata a rapinare e a sfruttare come una colonia il territorio conquistato.

Tutto questo ha condizionato pesantemente lo sviluppo sociale ed economico del nostro Popolo. In 150 anni di questa “unità” la Napolitania è diventata sempre più povera, mentre i veri poteri nascosti, come parassiti, si arricchiscono sempre più. La sintesi la dà la media del divario nel PIL per abitante: la Napolitania 17.324 euro contro i 29.914 del Nord.

Mentre nel 1861, nella Napolitania il 22,8 per cento della popolazione attiva lavorava nell’industria contro il 15,5 di tutto il Centro-Nord, ora dopo 150 anni solo un milione e 400 mila napolitani hanno un impiego industriale nella propria terra. Oggi, circa il 24% dei napolitani ha smesso perfino di cercare lavoro poiché le difficoltà di trovare un lavoro nel nostro territorio sono aumentate del 67% anche per l’inefficienza della pubblica amministrazione.

Lo Stato italiano in sostanza ha di proposito resa più povera la Napolitania, al fine di  utilizzare questa “povertà” per gli interessi delle imprese del nord. Tipico il trucco della Cassa del Mezzogiorno che in concreto serviva a finanziare le aziende del Nord senza mai realizzare nella Napolitania le infrastrutture necessarie, anzi comprimendo perfino il sistema finanziario che doveva essere a sostegno alle imprese napolitane.

Tutto questo ha fatto sì che la Napolitania diventasse sin dal 1861 il mercato di sbocco per i beni prodotti dal Nord, un mercato tra l’altro sostenuto sia con la spesa pubblica e sia con l’emigrazione forzata. L’emigrazione dalla Napolitania equivale, infatti, secondo stime della Fondazione Curella, a un travaso di risorse di 15 miliardi l’anno a favore delle regioni che ricevono il capitale umano già formato (la stima considera l’investimento della famiglia per crescere e istruire una persona fino al diploma superiore e lo moltiplica per le 100mila persone che ogni anno emigrano).

L’unica soluzione a tutto questo è la nostra indipendenza, e non ne esistono altre come ognuno di voi può facilmente rendersi conto. Lo Stato italiano, infatti, anche se volesse non può impiegare le sue risorse per mettere la Napolitania al pari delle altre regioni perché metterebbe in crisi lo sviluppo dell’intera attività del Centro-Nord, impoverendo tutta la penisola.

Tutto ciò significa che questa nostra improrogabile esigenza di indipendenza non è un fatto puramente nostalgico, fatto di cui spesso ci accusano a causa della confusione causata dai puerili comportamenti dei gruppi neoborbonici e simili.

Molti altri, invece, obiettano che noi avendo un territorio e un tessuto sociale povero, non avremmo mai la forza per renderci liberi e soprattutto per poter poi sopravvivere.

Anche questa è una leggenda metropolitana.

Come tutti sapete l’economia indica quell’insieme di attività umane che hanno come fine la soddisfazione dei bisogni dell’uomo, ciò significa che l’uomo è il soggetto dell’economia, mentre questa è l’oggetto. In pratica, quando si vuole affrontare correttamente l’argomento “economia”, si devono porre al centro dell’attenzione i bisogni dell’uomo e non le merci che servono a soddisfarlo.

Oggi invece in ogni paese è difficile poter ragionare di problemi economici prescindendo dal cosiddetto “libero mercato”, dal capitalismo, dalla globalizzazione, dalla finanza internazionale, dal denaro elettronico. Tutto ciò viene accettato in modo ineluttabile e chi non si adegua viene considerato arretrato, da terzo mondo.

Il risultato di questo infernale meccanismo è stato quello dell’imposizione da parte delle multinazionali, sui mercati mondiali di prodotti uguali per tutti (esempio: Coca Cola, Mc Donald, giocattoli, computer, ecc.) a scapito dei prodotti artigianali locali, che pure essendo di qualità migliore sono destinati a scomparire. Così stanno scomparendo anche gli artigiani che con la loro attitudine e la loro inventiva creavano beni di qualità. È sotto gli occhi di tutti la continua chiusura di piccoli negozi e la continua apertura di nuovi sportelli bancari e di grandi supermercati.

Tutto questo è avvenuto perché il denaro si è trasformato, da mezzo per favorire gli scambi, a religione di vita, è diventato cioè il “dio denaro” a scapito di quei valori che hanno sempre caratterizzato l’agire umano e, soprattutto, a scapito dell’orgoglio del proprio lavoro. Il denaro è diventato un potere globale, vuoto di contenuto, ma capace di asservire tutto e tutti.

Inizialmente il valore della moneta era conseguito quasi totalmente dal valore intrinseco dei metalli usati, l’oro e l’argento soprattutto. Un valore che le fu dato anche per la rarità e la qualità dei metalli con cui esse erano coniate.

Questa rarità, però, faceva sì che la mancanza di moneta produceva una stasi delle attività commerciali. Fatto che fece comprendere che aveva grande importanza anche il numero delle transazioni che la moneta riusciva a realizzare, cioè si acquisì il concetto che la velocità della circolazione monetaria ampliava enormemente le possibilità commerciali.

In seguito si scoprì anche il concetto di equilibrio del mercato e cioè che un mercato resta equilibrato quando il rapporto tra circolazione monetaria, i beni prodotti e il numero delle persone che usufruiscono di questo sistema rimane costante.

Questo equilibrio è basilare per ogni sistema economico corretto. Infatti, fu osservato che se vi è un eccesso di moneta in circolazione o un aumento della domanda nei confronti dei beni prodotti, si produce inflazione (che porta alla svalutazione della moneta e all’aumento dei prezzi). Se invece vi è una diminuzione del denaro in circolazione o diminuzione della domanda, si ha la deflazione (cioè aumento del costo della moneta e diminuzione dei prezzi).

Per cui se il mercato produce maggiori beni è necessario aumentare la quantità monetaria in circolazione per evitare la deflazione.

Nel caso di una scarsa produzione di beni è invece necessario diminuire la circolazione monetaria per evitare l’inflazione.

Sia l’inflazione che la deflazione, infatti, devono essere assenti in un sistema economico, in quanto comunque dannosi perché producono instabilità nel mercato.

Per risolvere questi problemi (mercato stagnante, inflazione e deflazione) derivanti dalla disponibilità del metallo, fu inventata la cartamoneta, replicabile all’infinito senza alcun costo se non quello della carta e dell’inchiostro. Tale cartamoneta di per sé, quindi, non ha alcun valore, ma ha solo la funzione di strumento di misura dei valori, consentendo di tenere il mercato in equilibrio e di permettere di velocizzare gli scambi commerciali.

Questo passaggio dal sistema metallico a quello cartaceo fu graduale. Inizialmente la cartamoneta di ogni Stato rimase ancorata all’oro che aveva come riserva, ma nel 1944 a seguito degli accordi di Bretton Wood, vari Stati ancorarono la propria cartamoneta al dollaro U.S.A. (che restò convertibile in oro).

Nel 1971, poi, durante la presidenza Nixon, fu abolita la convertibilità in oro del dollaro, ma la cartamoneta di vari Stati rimase lo stesso ancorata al dollaro, che fungeva quindi da moneta di riserva. Così si stabilì un vero e proprio sistema di sudditanza monetaria perché il dollaro, pur non essendo più convertibile in oro, acquistò il valore dell’oro, mentre ciò non avvenne per le altre monete.

Il dollaro nonostante non fosse più convertibile in oro e nonostante gli USA ne approfittassero stampando più carta moneta di quanto fosse loro consentito, mantenne il suo valore, perché in sostanza esso si basava sulla produzione dei beni di quello Stato, così come avviene in tutti gli altri Paesi.

Da questa situazione si comprese, dunque, che il valore intrinseco della cartamoneta è basato soltanto sulla convenzione di coloro che lo accettano come mezzo di pagamento. Questo significa che il valore della cartamoneta non lo dà la Banca d’Italia (o le altre banche del mondo), né le sue riserve in dollari, ma il popolo che produce i beni economici a cui quel valore si riferisce. Infatti è il popolo che l’accetta per convenzione come misura del valore dei beni, perché, ripeto, la cartamoneta di per sé non ha alcun valore, cioè il suo costo è dato da quanto serve per stamparla.

L’uso corretto della stampa della cartamoneta è, dunque, determinante per l’armonioso sviluppo di un Paese. In caso contrario si ha una catastrofe economica. Questo fa comprendere che il potere di emettere moneta è il più grande dei poteri, superiore a qualsiasi tipo di potere politico, che è sottoposto a quello di emettere moneta. Per cui tale potere, che è sovrano, deve appartenere per sua natura allo Stato, cioè al popolo che è quello che lavora e produce il vero valore che si dà alla moneta: cioè i beni economici.

Prima dell’aggressione piemontese il sistema monetario delle Due Sicilie era basato sulla coniazione da parte dello Stato di monete d’oro e d’argento e sull’emissione di fedi di credito (che era poi carta moneta), ma che rispecchiavano un corrispettivo in oro depositato in banca, permettendo così una maggiore velocità negli scambi e, soprattutto, rispettando correttamente l’equilibrio del mercato a tutto vantaggio del popolo.

In sostanza, nelle Due Sicilie, la moneta era una “moneta-credito” e non una “moneta-debito” come è oggi in Italia. La Banca delle Due Sicilie, infatti, era una banca di Stato e non era privata come è oggi la Banca d’Italia o quella europea.

Il sistema finanziario delle Due Sicilie era solido e floridissimo, sintomo di grande vitalità commerciale (il circolante era di 457,5  milioni lire – oro), mentre quello del Piemonte era ridottissimo (appena 20 milioni lire-oro in circolazione). Da precisare che l’emissione della cartamoneta piemontese, con l’avvento di Cavour, fu affidata invece che allo Stato a una Banca privata, la Banca Nazionale degli Stati Sardi, in cui Cavour aveva propri interessi. Vale a dire che questa Banca privata aveva il potere di emettere moneta, cioè soprattutto carta moneta in un rapporto assai truffaldino rispetto alla quantità di oro posseduto.

Dopo l’unità, con la conseguente rapina del tesoro delle Due Sicilie, la Banca degli Stati sardi, divenne la Banca d’Italia, conservando fino al 1994 la sua caratteristica di essere una Banca Privata, a cui lo Stato piemontese aveva ceduto la sovranità di emettere moneta.

Ora, ipocritamente, la Banca d’Italia si chiama Istituto di diritto pubblico, ma in sostanza non è cambiato nulla perché le sue quote sono possedute da enti privati che, incredibilmente, la stessa Banca d’Italia deve controllare.

Questi sono i proprietari della Banca d’Italia, cioè quelli controllano l’economia del popolo italiano, con a fianco le quote di proprietà:

Gruppo Intesa (27,2%) – Gruppo San Paolo IMI (17,23%) – Gruppo Capitalia (11,15%) – Gruppo Unicredito (10,97%) – Gruppo Assicurazioni Generali (6,33%) – INPS (5%) – Banca Carige (3,96%) – Banca Nazionale del Lavoro (2,83%) – Banca Monte dei Paschi di Siena (2,50%) – Gruppo Premafin-La Fondiaria (2,00%) – Cassa di Risparmio di Firenze (1,85%) – RAS-Riunione Adriatica di Sicurtà (1,33%)

Come si può notare nessun azionista proprietario è della Napolitania e, in sostanza, sono le prime quattro che controllano tutto.

La cosa singolare è, inoltre, che i dirigenti della Banca d’Italia non sono eletti dal popolo, eppure sono loro che decidono in modo del tutto autonomo la politica monetaria italiana, ma, è evidente, finalizzando ogni azione monetaria ad esclusivo interesse della Banca d’Italia (cioè dei suoi azionisti) e anche della Banca Centrale Europea a seguito degli accordi di Maastricht.

Il sistema finanziario italiano e europeo si può decisamente definire come una grande truffa. La Banca d’Italia, o meglio la Banca Centrale Europea, infatti, addebita al popolo italiano, cioè allo Stato italiano, la moneta che emette (e di cui non è proprietaria), moneta che invece dovrebbe essere accreditata perché è il corrispettivo dei beni che il popolo produce e che deve servire solo per permettere scambi commerciali. Infatti solo chi è proprietario di un bene può addebitarlo a chi, non proprietario, tale bene viene concesso.

Per questi motivi, non è affatto vero che inflazione e deflazione dipendono da ragioni di mercato, perché aumentando la produzione si può aumentare corrispondentemente senza alcun costo anche la quantità di moneta per ristabilire l’equilibrio di mercato.

E, se in questa situazione si impongono interessi (come fa illegittimamente la Banca d’Italia – ora la Banca Centrale Europea – con il Tasso Ufficiale di Sconto), facendo così diminuire denaro dal mercato (così la gente ha maggior bisogno di denaro che dovrà chiedere alle banche), si produce deflazione al solo vantaggio delle banche (situazione che però crea ristagno del mercato e disoccupazione).

L’inflazione è infatti uno spauracchio che in sostanza non esiste e serve solo per imporre la deflazione che fa aumentare il costo del denaro.

Quando la Banca d’Italia dice che c’è mancanza di denaro dice una menzogna: è come sostenere di non poter costruire le strade per mancanza di chilometri. (Prof. Auriti)

Da tutto questo risulta chiaro che non è vero che non si può risolvere il problema della disoccupazione o la cosiddetta “questione meridionale” oppure del ristagno dell’economia, ma che in realtà questi problemi sono necessari alla Banca d’Italia, ora ovviamente alla Banca Centrale Europea, per incrementare i suoi interessi usurari a suo esclusivo vantaggio.

Il sistema Due Sicilie imponeva poche tasse perché queste servivano effettivamente a compensare le spese dei servizi alla collettività. Nelle Due Sicilie l’economia era un sistema a misura d’uomo, cioè il denaro era posto al servizio dell’uomo e non viceversa. E’ significativo, infatti, che negli ultimi 50 anni del Regno i prezzi dei beni di consumo erano rimasti sostanzialmente gli stessi.

Il sistema italiano (e quello europeo), invece, ha asservito l’uomo al denaro, che viene usato come sistema di potere e di condizionamento, non più soltanto come strumento commerciale.

Da tutto ciò si può facilmente intuire che questo Stato non permetterà mai che la Napolitania possa crescere economicamente. Essa deve rimanere funzionale ai gruppi industriali e finanziari del Nord (cioè dei veri padroni della Banca d’Italia, azionisti cioè della Banca Centrale Europea, discendenti diretti di quegli avventurieri che decisero l’unità d’Italia), i quali così possono imporre alle colonie Napolitania e Sicilia i loro prodotti, industriali, finanziari e assicurativi.

Una truffa colossale è poi quella dell’emissione dei titoli di debito pubblico (BOT, CCT, ecc) mediante cui lo Stato italiano soddisfa il suo bisogno di denaro. La Banca Centrale (che è privata) emette pezzi di carta stampata e impulsi elettronici di accredito, senza valore intrinseco, senza copertura aurea, senza convertibilità, a costo zero, e li addebita allo Stato in cambio di denaro vero, denaro frutto del nostro lavoro, denaro che il popolo paga con le tasse. L’assurdo è che lo Stato potrebbe emettere in proprio il denaro necessario senza avere alcun debito.

Per maggior comprensione è necessario parlare anche di signoraggio, che è primario e secondario.

Indisturbate, sotto gli occhi della magistratura, le banche centrali, fra cui la Banca d’Italia e la Banca Centrale Europea, incredibilmente private, praticano il crimine del signoraggio primario, mentre le banche commerciali praticano l’ancora più grave signoraggio secondario, realizzando peraltro un’evasione fiscale maggiore sia delle tasse pagate che delle tasse evase dal resto della società.

Il signoraggio primario consiste nel fatto che le banche centrali (private) producono i soldi al costo della carta e dell’inchiostro, o elettronicamente, e poi li ‘vendono’ agli Stati (che potrebbero produrli da sé) facendoseli pagare con i buoni del tesoro, creando così il debito pubblico.

La stessa cosa accade con il signoraggio secondario che consiste nel fatto che, in virtù del «moltiplicatore monetario», le banche di credito fanno prestiti per un ammontare 50 volte maggiore di quello che detengono, creando dal nulla altra moneta. Esse cioè usano 50 volte lo stesso denaro per appropriarsi indebitamente di interessi anch’essi cinquantuplicati.

Questi interessi cinquantuplicati costituiscono anch’essi una creazione di denaro dal nulla, che tuttavia nemmeno essa avviene a beneficio delle banche di credito e dei loro azionisti, ma avviene invece a beneficio delle ‘dinastie’ che le controllano. Ciò anche qui attraverso dei falsi in bilancio con i quali non fanno risultare questi enormi proventi, che pur essi vengono distratti e poi riciclati.

Mi sono particolarmente dilungato su questo ultimo argomento perché è determinante per comprendere gli immensi vantaggi, soprattutto di sviluppo economico e sociale, che potremmo avere dall’indipendenza del nostro Popolo e dei nostri Territori stampando e controllando noi il denaro necessario.

 

 

Ancora nessun commento.

Lascia un commento